La questione relativa all’anatocismo attuato dalle banche dagli anni 50 sino alla nota sentenza della Cassazione del marzo 1999 è ormai comunemente nota.
Per illegittima applicazione di interessi bancari anatocistici, si intende la pratica di addebitare gli interessi passivi, relativi a somme date a credito al correntista, con scadenza trimestrale.
Tali interessi, riportati trimestralmente sull’estratto conto del cliente, assumono veste di capitale in modo da produrre a loro volta interessi passivi.
La pratica di applicare interessi anatocistici è stata messa in atto dagli istituti di credito per il periodo che va dagli albori del Codice civile sino alla emanazione del decreto Legislativo 342/99 e della delibera del CICR dl 9/02/2000.
La giurisprudenza di legittimità per molti anni ha avallato il modus operandi delle banche sino a quando, cambiando orientamento (sentenze 2374, 3096 e 3845/1999) non ha, affermato l’illiceità del sistema.
Non trovava, dunque, più accoglimento l’impostazione giuridica sostenuta dalle banche secondo cui, in presenza di un uso normativo, in vigore da anni, gli istituti potevano derogare al disposto dell’art.1283 C.C. che recita testualmente:
“In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi scaduti da almeno sei mesi”.
In forza del nuovo orientamento giurisprudenziale si rendeva necessaria una nuova legislazione che regolamentasse la materia.
In tal senso con Decreto 342 del 4/08/1999 il Governo attribuiva al CICR il potere di stabilire, con apposita delibera, le modalità ed i criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio della attività bancaria, assicurando che alla clientela dovesse essere assicurata la “stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori”.
Il 9/02/99 il CICR emanava il provvedimento di sua competenza che entrava in vigore il 22/04/2000.
Per quanto attiene il divieto di anatocismo per il periodo antecedente alla succitata legge “salva banche”, la giurisprudenza di legittimità ha continuato a pronunciarsi sfavorevolmente per gli istituti bancari : Cass.n. 6263/01- 1281/02 – 4490/02-8442/02-2593/03- 12222/03 – 13739/03 – 3805/04 – 4095/05.
Da ultimo, a conclusione della annosa diatriba giudiziaria, si è pronunciata la Suprema Corte a Sezioni Unite (n.21095/2004) che ha definitivamente respinto gli assunti delle banche.
Le Sezioni Unite sono state chiare nel respingere l’assunto secondo il quale, per tutto il periodo antecedente al 1999, sarebbe esistita una diffusa opinio iuris, e quindi un vero e proprio uso normativo, che avrebbe legittimato l’applicazione degli interessi anatocistici.
Sosteneva, infatti, la banca ricorrente, che solo a partire dal 1999, a seguito di una diversa sensibilizzazione della clientela di fronte a certi aspetti giuridico-etici, ci sarebbe stata la ribellione contro il sistema prima accettato.L
a Cassazione, nella sua massima composizione, ha definitivamente ribadito che: “Gli usi contrari, suscettibili di derogare al precetto del 1283 C.C., sono non i meri “usi negoziali” di cui all’art. 1340 C.C. , ma esclusivamente i veri e propri “usi normativi”, di cui agli art.1 e 8 disp. Prel. Cc, consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratta di un comportamento giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme ad una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico ( opinio juris ac necessitatis) .”
La sentenza rileva poi come la clientela degli istituti di credito, lungi dal ritenere legittima l’imputazione trimestrale degli interessi, si sia semplicemente adeguata, stante l’impossibilità di negoziare condizioni diverse.
Ancora le Sezioni Unite hanno rigettato gli argomenti delle banche in ordine alla non retroattività del divieto di applicazione degli interessi anatocistici.
Atteso, dunque, il reiterato indirizzo della giurisprudenza di legittimità e di merito, nonché il fallito tentativo del governo di eliminare l’onere per le banche della restituzione delle somme illegittimamente incassate (si ricorda che il D.L.342/99 prevedeva di sanare retroattivamente l’operato delle banche e che detta statuizione è stata abrogata dalla sent. 425/00 Corte Cost.) è evidente che tutte le somme percepite illegittimamente dagli istituti di credito negli anni precedenti al 2000 devono essere restituite ai correntisti.
Tuttavia così non avviene e, abusando della propria posizione di potere, le banche, seguendo un indirizzo concordato associativamente, non danno corso a richieste stragiudiziali e resistono in causa a mero fine defatigatorio e dilatorio.
Non solo, le banche, forti delle loro influenze politiche, al fine di evitare la restituzione ai cittadini delle somme incassate in violazione di norme giuridiche, hanno recentemente fatto pressione al fine di ottenere una legge che, limitando i termini di prescrizione, rendesse di fatto impossibile l’azione di recupero da parte dei correntisti.
Veniva così emanata un’apposita norma, subito definita “SALVA BANCHE” (art.2, comma 61 D.l. 225/2010 (c.d.Milleproroghe) convertito nella Legge n.10/2011), la quale prevedeva che il termine prescrizionale dell’azione di recupero nei confronti delle banche decorresse dal giorno dell’addebito e non, come aveva stabilito la Corte di Cassazione a sezioni unite dal giorno di chiusura del conto . Peraltro la norma aveva dichiaratamente effetto retroattivo.
Con questa disposizione lo stato impediva ai cittadini il recupero dei crediti, risultando prescritte tutte le posizioni.
Per fortuna, a conferma che il nostro è uno stato di diritto, e che il pernio dei nostri diritti è la Costituzione, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 78 del 5 Aprile 2012, ha abrogato la succitata norma in quanto emanata in violazione dell’art. 3 e 117 Cost.
E’ allora ancora possibile, nei casi in questione, per i cittadini, agire per la salvaguardia dei propri diritti.
LE COMMISSIONI DI MASSIMO SCOPERTO – ANATOCISMO
Oltre agli interessi anatocistici un ulteriore onere è stato posto in capo al correntista da parte delle banche, si tratta della commissione di massimo scoperto.
La commissione è stata giustificata dagli istituti di credito, quale rischio della variazione del costo della provvista, considerato che l’apertura di un conto corrente comporta per la banca la necessità di reperire copertura finanziaria.
La commissione di massimo scoperto rappresenta dunque un maggiore guadagno per la banca, andando ulteriormente ad indebitare il correntista.G
li istituti di credito utilizzano diversi sistemi di calcolo per conteggiare la commissione: vi è il criterio assoluto quando è calcolata sul massimo saldo passivo del trimestre, il criterio relativo quando viene calcolata sul saldo negativo protrattosi per almeno 10 giorni, il criterio misto che tiene conto di entrambi i sistemi.
Tuttavia la giurisprudenza che si è andata formando in questi anni è concorde nel ritenere che detta commissione non possa essere addebitata dalla banca in difetto di espressa convenzione.
Si veda in punto:
Cass. Civ. sez. I , 14/05/2005 n. 10127
Trib. Pescara, 5/01/2006 n.298
Trib. Velletri, 16 Marzo 2009 n.548
Trib. Trento, 3 Febbraio 2010 n.125
Trib. Arezzo, 19 Agosto 2009 n.716
Trib. Ferrara, 16 Aprile 2009 n.642
Ancora è stata dichiarata nulla la clausola contrattuale che, pur statuendo l’applicazione della commissione di massimo scoperto, non ne determini il metodo di calcolo, ma si limiti a stabilire unicamente la percentuale.
Trib. Vibo Valentia 16/01/ 06 n.23
Ma vi è di più.
La giurisprudenza di merito ha in modo costante rilevato che, anche qualora prevista contrattualmente, la commissioni di massimo scoperto è da ritenersi nulla per mancanza di causa.
E’ stata infatti ritenuta priva di fondamento la tesi delle banche secondo cui la commissione svolge la funzione corrispettivo per il maggior rischio, per la banca, in caso di incremento dell’utilizzo del fido da parte del correntista.
Se così fosse, infatti, la banca dovrebbe applicare la commissione ad ogni variazione di utilizzo e per tutta la sua durata.
Le clausole relative alle commissioni di massimo scoperto sono dunque nulle per mancanza di causa in quanto risultano estremamente imprecise nella determinazione del loro contenuto non individuando la causa giustificativa dell’attribuzione dell’onere al cliente.
Così analizzate, le clausole de quibus non possono che costituire un ulteriore interesse corrispettivo non pattuito posto a carico del correntista . In tal senso:
Trib. Patti 10/06/2006 n.155
Trib. Milano 4/07/2002
Trib. Mondovì, 17 /02/2009 n. 70
Coerentemente con gli assunti illustrati, la giurisprudenza ha affermato la validità della clausola relativa commissione di massimo scoperto esclusivamente nel caso in cui il correntista abbia utilizzato somme oltre il limite del fido.
Infatti la dizione stessa della commissione implica che si tratti di un costo applicato dalla banca in relazione ad importi utilizzati oltre l’affidamento concesso.
Del resto l’utilizzo di somme entro il limite del fido non costituisce tecnicamente uno scoperto: Trib. Mantova, 21/0472007.
Chiariti i criteri di valutazione dell’efficacia giuridica della clausola sulla commissione di massimo scoperto, occorre affrontare il problema della applicazione trimestrale della stessa .
Nel caso di nullità per i motivi dianzi esposti nulla quaestio, le somme andranno integralmente restituite al correntista.
Nel diverso caso di validità della clausola, la commissione non può però essere calcolata trimestralmente, stante il divieto ormai acclarato dalla giurisprudenza.
Vedasi in punto : Trib.Lecce sent.11/03/2005 – Trib. di Cosenza n. 623/2002 – Trib. di Lecce n. 2598 del 08/10/1997 – G. di Pace di Palermo del 10/12/1997 – Trib. Trapani 7/07/04 – Trib Torino 23/07/03, Trib. Roma 28/11/2002, Trib. Reggio Calabria 28/06/2002.
La inapplicabilità delle commissioni di massimo scoperto con scadenza trimestrale trae origine dalle seguenti argomentazioni.
“ Sia che tale commissione sia un accessorio che si aggiunge agli interessi passivi, come potrebbe inferirsi dall’essere conteggiata in una misura percentuale dell’esposizione debitoria massima raggiunta e quindi sulle somme effettivamente utilizzate nel periodo considerato, che solitamente è trimestrale e dalla pattuizione della sua capitalizzazione trimestrale come per gli interessi passivi, sia che la medesima commissione abbia una funzione remunerativa dell’obbligo della banca di tenere a disposizione dell’accreditato una determinata somma per un determinato periodo di tempo, indipendentemente dal suo utilizzo, la capitalizzazione trimestrale non è dovuta atteso che , nell’un caso le clausole anatocistiche sono nulle, e, nell’altro caso la disciplina dell’anatocismo, prevista dall’art. 1283 C.C., espressamente per gli interessi scaduti non è estensibile ad un corrispettivo autonomo dagli interessi. “Trib.Trapani 7/07/04.
L’ USURA
Da quanto sopra discende che le somme richieste dalla banca ed imputate al correntista trimestralmente per commissione di massimo scoperto, altro non sono se non un ulteriore interesse corrispettivo, il quale sommato all’interesse sullo scoperto di conto, nonché agli interessi anatocistici, va a modificare il tasso applicato dalla banca sino a condurlo, in alcuni casi, nell’alveo dell’usura. .
In punto appare puntuale il richiamo al provvedimento del Tribunale di Napoli, sez. GIP, 21 giugno 2006 con cui il giudice ha rigettato la richiesta di archiviazione relativa ad un procedimento per usura, ritenendo che, al fine del superamento del tasso della soglia di usura, anche le commissioni di massimo scoperto devono rientrare nel calcolo del tasso effettivo applicato dall’istituto di credito.
Nel senso suindicato si è recentemente pronunciata la Suprema Corte la quale ha affermato la correttezza della decisione del giudice del merito, chiamato a valutare il superamento della soglia di usura, che aveva considerato le commissioni di massimo scoperto al fine del calcolo del tasso .
Corte di Cassazione 26/03/2010 n. 12028
In particolare la Suprema Corte ha affermato che “ il chiaro tenore letterale del comma 4 dell’art.644 cod.pen. (secondo il quale per la determinazione del tasso di interesse usuraio si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate all’erogazione del credito) impone di considerare rilevante ai fini della determinazione della fattispecie di usura, tutti gli oneri che l’utente sopporti in connessione con il suo uso del credito. Tra essi rientra indubbiamente la commissione di massimo scoperto trattandosi di un costo indiscutibilmente collegato all’erogazione del credito, giacchè ricorre tutte le volte in cui il cliente utilizza concretamente lo scoperto di conto, e funge da corrispettivo per l’onere a cui l’intermediario finanziario si sottopone, di procurarsi la necessaria provvista di liquidità per tenerla a disposizione del cliente. Ciò comporta che, per la determinazione del tasso effettivo globale praticato dall’intermediario finanziario nei confronti del soggetto fruitore del credito deve tenersi conto anche della commissione di massimo scoperto ove praticata. ”
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